SIMONE SCAFIDI
1-
Hai
un film o un regista nel cuore che ti ha indicato la via per diventare un
regista ?
Ho avuto la fortuna di crescere in una famiglia e in un casa dove si
guardavano bei film. I miei genitori non sono mai stati dei cinefili nel senso
assoluto del termine, ma hanno sempre saputo quanto una buona educazione
cinematografica potesse essere utile ad un figlio. Sono cresciuto guardando i
film di Wilder, di Hitchcock, di Fellini, di Kubrick, di Chaplin, di Welles,
quando ancora li facevano in prima serata in televisione. Da lì, in maniera
quasi naturale, è nato il mio amore per il cinema. Quando poi nei primi anni
’90, nell’epoca di Tele+ e delle videoteche, ho avuto accesso all’ignoto, a ciò
che le tv generaliste difficilmente trasmettevano, ho scoperto film e autori
che parlavano in maniera personale, unica e diretta di loro stessi e del mondo
in cui tutti viviamo. Ricordo come emozioni uniche le prime volte in cui ho
visto i film di Herzog, di Fassbinder, di Cronenberg, di Borowczyk, di
Pasolini, di Antonioni, di Bresson, di Tarkovskij. Questi autori, con il loro
cinema che pone dubbi e non fornisce risposte, mi hanno portato ad interrogarmi
su me stesso. Durante l’adolescenza, fuoriuscito dall’età dell’oro
dell’infanzia, mi sentivo un po’ anonimo e senza direzione. Amare questo cinema
mi ha permesso, con estrema spontaneità, di essere diverso dai miei coetanei.
Loro, direi comprensibilmente, andavano pazzi per i film con Stallone o
Schwarzenegger, per le commedie di Nuti e di Benigni, per “Ritorno al futuro” o
“Star Wars”. Io invece perdevo la testa per “Videodrome” o per “Velluto Blu”,
per “Teorema” o per “Aguirre furore di Dio”.
Il cinema mi ha quindi aiutato a riflettere su di me, sul mondo che mi
era attorno e mi è sembrato in qualche modo normale sognare di diventare un
regista. Per cercare di far provare ad altri le emozioni che io avevo vissuto
sullo schermo.
2-
Parliamo
del tuo esordio nel lungometraggio con “gli arcangeli “ un film scomodo, duro e
coraggioso . Ci vuoi parlare della genesi del film ?
Tra il 1997 e il 2000 avevo diretti corti e lungometraggi amatoriali che
mi avevano permesso di iniziare a cercare una mia via espressiva e anche di
farmi un poco conoscere nell’ambiente. Alla fine, senza andare tanto lontano,
proprio nella mia città, Tortona, ho incontrato Andrea de Onestis, attore
diplomato al Piccolo di Milano. Per quanto diversi, siamo diventati una coppia
lavorativa molto affiatata. E insieme abbiamo scritto “Gli arcangeli” nel 2000.
Con il tipico spirito ingenuo e infuocato che contraddistingue la gioventù, io
all’epoca avevo 22anni, pensavamo che la nostra sceneggiatura, così lontana dal
piattume medio italiano, avrebbe trovato molti produttori interessati. E’
chiaro che non fu così. “Gli arcangeli” è nato dal desiderio, direi dalla
necessità, di ritrarre la mia generazione, i giovani occidentali benestanti e
vuoti degli anni 2000, in una maniera sincera, dura e personale. Le influenze
sono state molte, ambiziose: da Bret Easton Ellis a “I demoni” di Dostoevskij,
ma Andrea e io abbiamo cercato di riportare tutte queste influenze nella realtà
che conoscevamo: quella della media borghesia di una cittadina spensierata, ma
chiusa, come Tortona. Ma il nostro non era un facile film provinciale, un
ritrattino dolceamaro, ma un violento e inopportuno racconto.
Pur essendo due totali sconosciuti riuscimmo a portare il film a realtà
produttive come la Mikado, come la Keyfilms, come la casa di produzione di
Giorgio Leopardi (che ha realizzato film di Nuti, Benvenuti, Pupi Avati e molti
altri). Tra precontratti firmati e poi stracciati, promesse disattese, quando
sembrava finalmente nel 2003 che il film partisse con Leopardi, tutto saltò.
Non fu facile ricominciare. Come dice giustamente Nanni Moretti: ‘Un
esordiente arriva al suo primo film che è già stremato dalla fatica’.
Oggi, col senno di poi, so bene che è stato un percorso normale. Ma
quando sei giovane e pensi di portare il fuoco della verità, ti sembra assurdo
dover patire così tanta attesa. Ti appare folle incontrare produttori che
preferiscano investire su banali commediole o su filmetti civili di tiepida
attualità. Ma purtroppo, soprattutto in Italia, si pensa che il cinema altro,
alieno, diverso sia qualcosa da evitare come la peste. E non che possa essere
qualcosa capace di sopravvivere al tempo, alle mode e di crearsi un piccolo
pubblico che lo sosterrà e seguirà nel corso degli anni.
Alla fine, proprio a Tortona, trovammo la nostra via d’uscita. Il nostro
concittadino David Cartasegna, giovane intellettuale e amante del cinema,
decise di intraprendere la via della produzione e scelse di puntare su “Gli
arcangeli”. Con grande coraggio, non essendo ricco, sacrificò 50mila euro
frutto di parte della vendita di una sua piccola proprietà, e nel 2004 girammo
“Gli arcangeli”.
David, Andrea e io eravamo tutti carichi di entusiasmo, ma gravati da
inesperienza. Riuscimmo a coinvolgere nel nostro film grandi professionisti e
attori di fama, come Francesca Inaudi e Franco Branciaroli. Ma, dall’altra
parte, non ci rendemmo conto che il budget e i giorni di ripresa (15) non erano
sufficienti per il nostro film. Avrei dovuto riadattare la sceneggiatura,
adeguarla a quanto avevo a disposizione, ma azzardai. Alcune scene funzionarono
meglio di quanto potessi augurarmi, altre non fui capace di renderle come avevo
immaginato.
Girammo in dvcam, con due Sony (una 170 e una 150), senza ottiche
cinematografiche. Oggi, con una fotocamera e due ottiche anche fotografiche, si
ottiene un risultato molto più cinematografico di quanto riuscii a fare io nel
lontano 2004. Ma allora fu quanto di meglio potemmo procurarci.
Tutto sommato nella sua bassa definizione, nella sua non
cinematograficità, risiede parte del fascino odierno de “Gli arcangeli”. Che
resta comunque un’opera unica, che non ha mai avuto altri esempi paragonabili
in Italia. Non è poco.
3-
Gli
arcangeli è stato distribuito in dvd dalla sinister film dopo molti anni dalla
sua realizzazione . C’è stato un momento in cui hai pensato che sarebbe stato
un film limitato solo al circuito dei festival?
In realtà il film uscì
in sala nel 2008, distribuito da Lo Scrittoio, una realtà che nel corso degli
anni ha conquistato una spazio importante nel panorama distributivo italiano (arrivando
anche a portare in sala “Goltzius and the Pelican Company”di Greenaway), ma che
a quei tempi esordiva in sala proprio con il mio film. Fu una piccola uscita,
ma che comunque permise al film di farsi conoscere, recensire e rientrare nel
novero del film regolarmente usciti in sala.
La strada dei festival
fu invece avara di soddisfazioni. Dai primi mesi del 2005 fino al 2007, mostrai
il film a diversi critici e selezionatori, feci iscrivere il film a tanti festival,
ma non venni selezionato in nessun festival di fascia A, di fascia B e nemmeno
di fascia C. Per quanto ingenuo, non mi aspettavo di certo di andare in
concorso a Venezia, ma pensavo che in qualche sezione minore di festival
italiani, e soprattutto esteri, ci potesse essere spazio per un piccolo,
coraggioso e anomalo film come questo. Ma ciò non accadde. Come non è ancora
successo per nessuno dei miei film.
“Gli arcangeli” passò
per festival minori, riuscendo comunque a creare un po’ di interesse intorno a
sé e a trovare nello Scrittoio la realtà che decise di portarlo in sala.
Dopo quell’uscita, il
film è sparito dalla circolazione. La sua piccola fama è cresciuta, molti
spettatori hanno iniziato a scrivermi chiedendomi come e dove vederlo, e
finalmente nel 2014 Sinister Films l’ha pubblicato in dvd.
Oggi penso che aver
scelto di esordire in questo modo sia stato un atto di coraggio, ma castrante.
Avrei dovuto aspettare, puntare su un altro film, magari più abbordabile, ed
arrivare alla classica opera prima finanziata dal Ministero. Mi avrebbe
permesso di avere un ingresso con tutti i crismi nel mondo del cinema. Ma
invece ho deciso di essere audace, di restare fedele alla mia idea di cinema.
4-
Con
il film “La festa “ cambi radicalmente stile e giri questa pellicola molto più
accessibile rispetto agli altri tuoi lavori . Sei soddisfatto di questa
esperienza ?
E’ stata l’esperienza
più difficile del mio percorso, ma quella più educativa. Dopo “Gli arcangeli”
ho girato, sempre con De Onestis come interprete e co sceneggiatore, “Appunti
per la distruzione”, di cui parlerò in seguito. Il film, molto più compiuto de
“Gli arcangeli”, mi portò una certa attenzione e così pensai che fosse arrivato
il momento di girare un film più ‘grosso’, una produzione come si deve. Ma,
dopo diversi progetti falliti e con l’urgenza di tornare a girare, colsi la
palla al balzo: il produttore milanese Franco Bocca Gelsi voleva realizzare un
point of view movie e io, in quattro e quattr otto gli proposi “La Festa”. Bocca
Gelsi e Enzo Coluccio di Ardaco produssero il film in tempi record: dal mio
primo soggetto all’inizio delle riprese passarono solo 9 mesi, un tempo senza
eguali in Italia. Fu il mio primo film con una vera produzione, anche se girato
in condizioni difficili: solo 9 giorni di ripresa, sette dei quali tutti di
notte. Un cast con dieci ragazzini come protagonisti. Una troupe di seri
professionisti, ma coi quali lavoravo per la prima volta. Un budget bassissimo.
Non tutto filò liscio, anzi. Dovetti modificare lo script giorno dopo giorno,
un po’ per l’accumulo di problemi imprevisti, un po’ perché quasi tutti gli
effetti speciali che dovevamo girare non risultarono fattibili sul set. Un
aspetto non da poco per un film con l’aura di essere un horror. Non mi nascondo
dietro un dito e so che questi problemi avrei potuto evitarli io essendo molto
più lungimirante durante la preproduzione, insistendo con la produzione per
migliorare molti aspetti che mi sembravano carenti. Ma, e questo è un errore, a
volte si preferisce restare in silenzio per paura di chiedere, di pretendere
troppo e di vedere il film saltare. I miei produttori erano persone
disponibili, come normale che sia su alcuni aspetti avevamo visioni differenti,
ma un po’ più di comunicazione ci avrebbe aiutato a rendere il film migliore.
Alla fine, comunque,
credo che “La Festa” abbia una sua piccola forza. Come horror non funziona,
come ritratto generazionale è un po’ zoppicante, ma il lavoro sul linguaggio è
riuscito. La forma diventa contenuto. E’ il racconto di una realtà nella quale
si organizza un evento solo per filmarlo, con tutte le conseguenze del caso. E
lo stile è quello dell’ultimo point of view movie possibile, una sorta di
pietra tombale. Il protagonista è poi un giovane che aspira a diventare un
regista, e questo mi ha permesso di inserire alcuni aspetti personali e comuni
a molti di noi cineasti, con tutte le iperboli possibili. Un po’ per
divertimento, un po’ per comunicare qualcosa di me.
Calcolando che si è
trattato di un film scommessa, girato in pochissimi giorni, alla fine la
produzione, la promozione ed io siamo stati bravi a riadattarlo a film per il
web, lanciandolo come il primo film 2.0 a puntate. Abbiamo costruito un sito
interattivo a dimensione degli spettatori navigatori. Su Dailymotion, la
piattaforma che aveva inizialmente in esclusiva il film, “La Festa” ha fatto
numeri piuttosto significativi, soprattutto da utenti esteri.
5-
Eva
Braun che considero il tuo film più riuscito è una pellicola scomoda con chiari
rimandi alla recente storia italiana . Parlaci del film
“Eva Braun” è il mio
lavoro più riuscito anche perché ho scritto la sceneggiatura sapendo
esattamente il budget e i giorni di riprese a disposizione. Ho plasmato il film
su quello che potevo fare. Così come,
dopo un casting lungo e complesso, ho riscritto con gli attori prescelti gran
parte dei dialoghi dei protagonisti.
“Eva Braun” è un
racconto impertinente e giocoso, crudo ma umano dell’Italia degli scandali
sessuali, del corpo usato come merce di scambio. Non ci sono Nicole Minetti o
Silvio Berlusconi, ma il film racconta di personaggi che si muovono nel paese
del Bunga Bunga e che sono vittime di una sorta di contagio. Pier, il
protagonista, è un potente molto meno potente dell’ex cavaliere. I suoi ospiti
sono molto più colti e talentuosi delle sgallettate Olgettine, ma tutti, ormai,
cercano la scorciatoia per raggiungere il successo, non hanno problemi a
scendere a compromessi. Ho cercato di raccontare questa realtà senza moralismi,
ma con una narrazione continuamente fuorviante, sia nei dialoghi che nella
conclusione delle singole scene. Nessuno ottiene ciò che vuole, nessuna
risposta arriva in maniera pertinente alle domande. E’ una realtà
indecifrabile, in cui ci si perde e si naufraga. Con dolore, ma anche con il
ricordo dell’amore che un tempo albergava nell’animo dei protagonisti. Prima di
inaridirsi per sempre.
6-
In
diversi momenti sia de Gli arcangeli che in Eva Braun gli attori sono alle
prese con numerose scene di forte impatto . Come riesci a conquistare la loro
fiducia e ti è capitato di trovarti in situazioni in cui qualcuno sul set si è
trovato in imbarazzo?
Sul set non ho mai
avuto problemi di imbarazzo da parte degli attori, ma ne ho avuti molti al
momento del casting. Sia per “Gli arcangeli” sia, soprattutto, per “Eva Braun”.
Nel milanese il casting di “Eva Braun” è ormai entrato nella leggenda, ha
terrorizzato una quantità impressionante di interpreti. In realtà è stato un
percorso chiaro fin dall’inizio. Io e la casting director Valentina Materiale
spiegavamo agli interpreti il tema del film e il modo in cui sarebbe stato
declinato. Io sottolineavo come nella sceneggiatura ci fossero molte
indicazioni, dall’uso del fuori campo alla scelta di far raccontare alcuni
passaggi crudi attraverso i piani d’ascolti di altri personaggi, che rendevano
i momenti più estremi non meramente grafici, ma più suggeriti. Il problema è
che molti attori non sanno leggere le sceneggiature. Se intuiscono cosa accade
in una scena, non si pongono il problema del come venga filmato. Naturalmente
questo mi ha condotto ad un’autoselezione che ha permesso a chi non era adatto
a questo film di restarne fuori. Ed è stata una fortuna, dato che sono
soddisfatto degli interpreti del film. Hanno lavorato con me alla definizione
del personaggio, insieme abbiamo riplasmato sulla loro sensibilità le
coordinate che io avevo scritto su carta. Sono stati coautori del film, sono
stati molto coraggiosi e non hanno mai avuto dubbi sul set.
7-
Hai
avuto delle difficoltà con Eva Braun a conquistare la fiducia dei produttori
viste le tematiche trattate alquanto scomode?
Non l’ho proposto ad alcun produttore. Ho vinto un bando di 30mila euro e
con quei soldi ho prodotto il film. Sapevo che non avrebbe avuto senso portarlo
a qualche produttore italiano, non gliene sarebbe fregato nulla. Tu vedi in
Italia film come “Eva Braun”? Direi di no.
Poi nel film è entrato, come produttore esecutivo, Gianluigi Perrone. Lui
è stato bravissimo a piazzare il film ad una sales agency importante come la
francese Wide, che generalmente schifa il 99% del cinema italiano. “Eva Braun”è
stato venduto in circa 20 nazioni, in quattro continenti. Non male per un film
piccolo, sconosciuto e non classificabile in alcun genere.
La vera difficoltà l’ho avuta coi festival. Pensavo che Locarno, Roma,
Torino avrebbero potuto dargli uno spazio. “Eva Braun” è un film unico nel
panorama italiano, capace di far discutere. Ma nessuno ha avuto il coraggio di
rischiare. Purtroppo i selezionatori dei festival preferiscono strade sicure.
Per loro il cinema d’autore deve essere prima certificato da qualcun altro,
oppure inserirsi in vie già battute e sicure, come il cinema del reale o
l’indie più glamour. Peccato. D’altronde parliamo di persone che non hanno mai
messo un piede su un set, non hanno idea di cosa voglia dire girare un film e,
soprattutto, farlo con due soldi.
Non voglio contestare chi scrive di cinema, generalmente i miei film
hanno sempre avuto recensioni benevole e ringrazio tutti quelli che hanno
dedicato del tempo alla visione di opere marginali come le mie. Però ho la sensazione
che il cinema ultra indipendente di oggi stia subendo quello che accadde al
cinema di genere italiano degli anni ’70 e ’80. Viene sottostimato, mai
analizzato a fondo, considerato come del non cinema, perché prodotto con troppi
pochi soldi e destinato a canali distributivi non sempre classici. Invece penso
che andrebbe studiato attentamente, anche nei suoi difetti. Ci vorrebbe una
grande retrospettiva sul cinema sommerso di questi anni. Gianni Canova ne fece
una, ristretta al cinema milanese, nel 2006. Al Premio Sergio Amidei ce ne fu
un’altra nel 2008. Ma poi basta. Eppure questi film spesso vengono distribuiti
all’estero più di quelli che passano per festival prestigiosi. E’ qualcosa su
cui riflettere…
8-
Passiamo
ai tuoi due documentari diametralmente opposti ovvero Appunti per la
distruzione e quello su Javier Zanetti , da dove nascono ?
“Appunti per la distruzione” è nato quando Andrea de Onestis mi ha fatto
leggere “La distruzione” di Dante Virgili. Un romanzo scritto nel 1968, in
pieni anni di contestazione, che ha per protagonista un uomo che sogna
l’annientamento del genere umano e che vive nel mito del nazismo e dei
totalitarismi. Il libro uscì con Mondadori, ma non ebbe alcun riscontro, né di
pubblico né di critica. Per anni Virgili, un uomo limite, è stato mantenuto e
sostenuto da alcune figure delle Mondadori, che in lui avevano visto un
possibile grande autore. A distanza di anni dalla morte di Virgili sono usciti
un libro che ne racconta la vita, la riedizione de “La distruzione”, e vari saggi
critici. Uno dei suoi più grandi sostenitori, tanto per fare un esempio, è
Roberto Saviano.
Il film mescola fiction, con scene ispirate al mondo di Virgili, ad
interviste. Da una parte si ricostruisce la vita di Virgili, davvero
incredibile, dall’altra si indaga sulle varie facce del Male. Virgili era un
uomo debole, di talento, sconfitto dalla vita. Sognava la distruzione, ma in
fondo cercava comprensione.
Non è stato un film semplice. Toccare il nazismo è sempre pericoloso, si
rischia di essere additati come estremisti di destra. Io, tra l’altro, sono da
sempre progressista e di sinistra, per quel che oggi possa voler dire, ma ho
avuto la curiosità di interrogarmi sul Male, su cosa abbia spinto milioni di
persone a sposare il nazismo, piuttosto che il franchismo o lo stalinismo. Ma
forse sono domande che è meglio non farsi, a quanto pare.
“Zanetti Story”, che ho ideato, scritto e diretto con Carlo A. Sigon,
grande uomo, grande amico e grande regista, è nato dal desiderio di trattare un
tema più facilmente producibile in Italia, ma realizzandolo sempre con
personalità. Il film è sicuramente il classico biopic con materiale di
repertorio e interviste inedite a personaggi noti, amici e parenti. Ma abbiamo
scelto di far poggiare il film sulla narrazione di un leggendario scrittore
argentino, Albino Guaron, la cui ultima opera è un romanzo su Zanetti. Le
parole di Guaron, ottantenne cieco che vive in una casa isolata nella più
remota provincia argentina, rielaborano la vita di Zanetti in maniera alta e non
scontata.
Sicuramente avvicinarsi ad una figura lineare, pulita, seria come Zanetti
poteva sembrare poco stimolante. Ma per me e per Carlo è stata una sfida,
abbiamo pensato che raccontare la normalità fosse più difficile rispetto
all’eccentricità. E trovare una chiave di racconto non banale è stata la nostra
vittoria.
Il film è stato primo al box office italiano, con circa 500mila euro di
incasso in un solo giorno di programmazione. E ora è uscito in home video, con
prenotazioni da record. Senza dubbio il tema è stato giusto, abbiamo
individuato un target di pubblico, quello dei tifosi, che ha dato le risposte
che aspettavamo. Ma il film ha una sua forte personalità e questo è quello che
conta.
9-
Ho
visto che sei stato invitato anche a festival prettamente horror come ad
esempio il fi-pi-li di Livorno . Avendo visto i tuoi film (che considero delle
perle e che a mio modo andrebbero fatti conoscere ai ragazzi che studiano
cinema ) non ho trovato nessun tipo di legame col cinema horror (se non l’uso
selvaggio e coraggioso della macchina da presa) . Il pubblico horror è molto
settoriale , ti senti a tuo agio anche in contesti diversi dal tuo?
Quella al Fi-Pi-Li è stata una bellissima esperienza. “Eva Braun” stato trattato con grande cura dagli
organizzatori e ottimamente accolto dal pubblico. Io ero un po’ restio a farlo
partecipare. Da una parte perché il film non è opera di genere, dall’altra
perché ai tempi speravo di approdare a festival più famosi. Ma alla fine è
stato giusto concederlo a chi realmente voleva questo film nel suo festival.
Il discorso horror è per me molto complesso. In Italia ci sono molti
autori che si muovono con libertà nel genere, da Cristopharo a Bianchini,
riuscendo a trovare un loro spazio con successo. Io ho tentato con l’horror
solo con “La Festa”, ma il progetto era troppo ibridato, e poco compiuto, per
soddisfare veramente gli amanti del genere. Io sono cresciuto amando l’horror.
A 7 anni costrinsi i miei genitori, dopo aver visto il poster appeso nella
bacheca di uno dei cinema tortonesi, a portarmi a vedere “L’occhio del gatto”.
“Shining” è stato uno dei miei primi grandi amori cinematografici. Dai 12 ai 14
anni ho divorato i libri di Stephen King. Poi, nei tristi primi anni ’90,
davvero modesti per l’horror in sala, ho riscoperto in vhs Romero, Carpenter,
Yuzna. E poi Lucio Fulci, che è stato il mio più grande amore nel genere. Nel
1994-1995 io vivevo a Tortona e nessuno, davvero nessuno, conosceva Fulci. A
sentire il suo nome, c’era chi rispondeva: ‘Era uno dei sette re di Roma?’. Gli
adulti che potevano aver visto i suoi successi in sala, non se ne ricordavano.
Non è come oggi, allora era totalmente rimosso. Per me scoprire il suo cinema è
stato illuminante, me ne innamorai. Ricordo che quando Fulci morì diversi miei
compagni di classe, che avevano letto la notizia sul televideo, mi telefonarono
quasi per farmi le condoglianze.
Il genere horror è sempre stato,
nei suoi esiti più felici, un genere eversivo. Ecco, io non sono un regista
horror, ma il mio cinema cerca sempre di scardinare le regole, di essere poco
rassicurante. E questo è un aspetto in comune.
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